MARCO VALLORA
La definizione più calzante, e non per caso, la dette un giorno il marito, Felice, che con gioia candida se la vide approdare un giorno in studio, dal mondo, come allieva già dotta, e prendere il suo posto, quieta: come in una casella già predisposta. Venuta per trovare la sorella ballerina Cynthia, stella del teatro di Gualino. Ma in realtà per conoscere il Maestro, che alla sorella aveva dedicato quel bel ritratto «metafisico», di realismo magico, come incantato. E poi, dopo non troppo mesi di lavoro in atelier, gli si propose pure come allieva del cuore. «Daphne è nata per dipingere, io per costruire cerebralmente una pittura». Attenzione, però: trattandosi di Casorati, e vien naturale, non si badi soltanto alla contrapposizione tra pittura mentale, d’astrazione, la sua, e quella di lei, istintiva invece, di natura: «materno-femminile». No, è al verbo che bisogna riflettere: Casorati, in verità, che ci ha lasciato alcune-tele capolavoro e miliari, ammette di «staccare» e costruisce frammenti stellari: Silvana Cenni, Conversazione filosofica, l'Attesa. Il resto, il fiume connettivo, è come silenzio.
Daphne, invece, è il «dipingere»: continuo, gemmante, quasi compulsivo. «Ammiravo Daphne che dipingeva con semplice gioia. La gioia le trasfigurava il viso, essa viveva momenti di vero rapimento dimentica di sé, di me, di tutto». Perduta nella pittura. Era il suo modo di «parlare», di ritrovare una voce, che non fosse nomade-internazionale, d’esternare le sue emozioni, così impenetrabili, lei «alta chiusa pallida», suggerisce il pittore-letterato Carlo Levi «piena di riserbi e di una bellezza, che per venire dall’interno, dalla limpidità dei sentimenti, pareva più profonda e misteriosa»: una sfinge dagli occhi misteriosamente caucasici. E Barbara Allason, sottilmente spiega: «pareva più lontana dalle parole che taciturna».
Le parole erano colore per lei, fiammante o spento, come nel bellissimo Autoritratto, spatolato di à plat rabbuiati, che apre la retrospettiva, curata da Daniela Lauria e Lio Lecci. Ove ogni tela o teletta ha una sua disinvolta autonomia cromatica, ed apparentemente quasi nessuna coerenza «autoriale» riconoscibile. Ci senti l’influenza del Talismano di Serusier, suo maestro, come quella di Lhote, tentazioni di spatola Ecole de Paris alla Tal Coat o Bissier, il gioco della luce-finestra, più Jessie Boswell che Matisse.
Ha visto Hodler e Soutine, Vanessa Bell e la Gontcharova del Fante di Quadri. Ma sarebbe errore derivarne un giudizio perplesso. Per il sempre perspicace Carluccio in questa «delicata declinazione post-impressionista», ella aveva trovato una sorta di appagato «occhio del sentimento», di «cerchio della sua intimità», in cui finalmente, dopo quel «cono d’ombra» giù nelle regole quasi claustrali dello studio di Casorati, la sua pittura «poteva coincidere esattamente con la sua vita». Quasi uno sfogo, una battaglia edipica, guerreggiata con la dolcezza: quotidiano «diario» di liberazione. Un triccottare perpetuo di pittura. La collina, espugnata con amore, è quella familiare di Pavarolo, terra concreta. Che differenza con le uova metafisiche e neoplatoniche di Felice! Le sue sono uova domestiche, di giornata, commestibili. Così la neve, d’un bellissimo ritrovato paesaggio nebbioso, chiazzato, di Courmayeur: non è più la neve cifrata e secessionista di lui, ma è latte friabile di montagna. Peccato, tra tanti quadri riemersi, l’assenza dell'Attesa, così diversa da quella omonima di Felice, ove la donna è una Morna che fila il non-tempo: in lei è la ciabatta d’una servetta, che attende il campanello della padrona, sfogliando una rivista. E la ciabatta traballa, come in un celebre San Luca di Mabuse.